Così veniva chiamata familiarmente l’acciaieria Thyssen-Krupp di Torino per la caratteristica di avere una manodopera giovane. Infatti avevano un’età tra i 26 e i 43 anni: Roberto Scola, Alberto Schiavone, Angelo Laurino, Bruno Santino, gli operai che sono morti nel rogo divampato nel reparto trattamento termico dello stabilimento. A loro si è aggiunto purtroppo Rocco Marzio, 54 anni, capo reparto.
Gli operai del turno di notte hanno cercato di domare l’incendio, ma sono stati investiti da una fiammata che li ha trasformati in torce umane.
Un minuto di silenzio al Teatro Alla Scala di Milano, dove il pubblico in lustrini e smoking, rigorosamente d’alta moda, ha pagato fino a 2.400 euro un biglietto; un minuto di silenzio nei luoghi istituzionali, nelle assemblee di partito; certo una partecipazione più profonda al dolore nei luoghi di lavoro. Soprattutto una fascia nera al braccio, in segno di un lutto, che dovremmo portare tutti come cittadini italiani. Dentro quel minuto o quell’ora, il sentimento dovrebbe tradursi in pensiero, riflessione, iniziativa.
La morte nella “ fabbrica dei ragazzi” si carica di significati tragicamente reali e allo stesso tempo drammaticamente simbolici. Contiene tutte le inefficienze, le carenze, i limiti che caratterizzano una parte del mondo del lavoro, a partire da quello giovanile, ma rappresenta in generale una idea e una realtà del lavoro che non ci piace. C’è dentro innanzitutto la “precarietà”: l’acciaieria era in via di smantellamento e chi vi lavorava, pur lamentando l’inadeguatezza delle misure e dei mezzi di sicurezza, temeva soprattutto lo spettro del licenziamento, come accade anche oggi che la fabbrica è stata chiusa per i necessari accertamenti. E questo richiama la dimensione globale del mercato: spinte a inseguire alti livelli di competitività, che vuol dire produttività al minor costo, le aziende mirano a diventare giganti nel mercato trascurando la dimensione umana del lavoro su cui hanno costruito la loro fortuna.
Anche nel contesto particolare del modello marchigiano, la delocalizzazione, cioè l’apertura o il trasferimento dell’azienda in paesi in cui il lavoro costa meno, comincia ad essere un processo quasi naturale, favorito magari da un passaggio di proprietà dal piccolo imprenditore alla multinazionale, il colosso di cui si possono scorgere solo i - pur minacciosi - piedi d’argilla.
Oppure, al livello più basso di cultura del lavoro e responsabilità sociale, risulta più conveniente rimanere nel territorio del sommerso, dell’illegale, del lavoro nero, dove si muore in modo anonimo, senza neppure il diritto al compianto.
I giovani operai di Torino ricordano ora tutto questo alle nostre coscienze sopite. Ogni battaglia, ogni denuncia, ogni azione combattuta per la dignità del lavoro sembrano appartenere a vecchie ideologie, a comportamenti che non hanno più nulla a che fare con i tempi in cui viviamo. Siano pure nuove, moderne, al passo con i tempi le strade e le forme che adotteremo per garantire meglio la sicurezza e la dignità del lavoro. Nessuno però si sottragga ora alle sue responsabilità di imprenditore, politico, sindacalista, lavoratore, cittadino, uomo, perché il problema riguarda tutta intera la nostra società, mentre coinvolge valori, scelte e comportamenti di ciascuno di noi.
Parliamo di responsabilità collettive e individuali perché in questi giorni abbiamo sentito ciascuno indicare tutt’al più le responsabilità degli altri, mai le proprie.
mercoledì 23 gennaio 2008
“La fabbrica dei ragazzi”
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